Questo non è un post sui sensi di colpa delle mamme. E nemmeno un post di giudizio e di critica verso le donne. Lo scrivo dando un calcio alla SEO, facendo una linguaccia a Yoast, e fregandomene di piani editoriali e orari migliori di pubblicazioni. Questo post lo scrivo come scrivevo una volta, per dare voce ai miei pensieri, e anche per alleggerirmene un po’.
In tutti i lavori ci sono i periodi di picco. Nel mio caso il picco di lavoro inizia a fine maggio e finisce a fine luglio. Del mio lavoro me ne sono sempre vergognata. Da quando ho partecipato al Visual Storytelling Days l’ho rivalutato. E con lui, in fondo, ho rivalutato anche me stessa. Sono una comunicatrice pubblica. Mi occupo di comunicazione per un ente della pubblica amministrazione. Il mio compito in questo periodo è rendere semplice e user friendly un bando di concorso di 162 pagine, più appendici e tabelle. Lo faccio diluendolo e semplificandolo per renderlo a misura di sito. Lo faccio trasformando le parole scritte in burocratese, in testi che registrerò, con la mia voce, e che diventeranno dei video, di cui curo le immagini, che spiegheranno in maniera semplice una materia complessa. Lo faccio rispondendo a centinaia e centinaia di mail che scrivono i nostri utenti. Per spiegargli quello che proprio non digeriscono di quel burocratese che la pubblica amministrazione ancora pensa sia necessario usare per spiegare le cose. E alla fine va bene così, altrimenti il mio lavoro non avrebbe ragione di esistere.
In tutto questo è un mese esatto che non scrivo un post. È da un mese esatto che aggiorno i social un tanto al braccio.
La mia giornata è cominciata con la sveglia alle 6.30. Stamattina Lolò all’asilo lo accompagna il papà. Così alle 7.50 sono arrivata in ufficio. Giornata lavorativa straordinaria, considerata la trasferta per realizzare delle riprese. Alle 17.10 ero di ritorno. Trasferita armi e bagagli dalla mia macchina a quella del mio compagno, senza nemmeno un pit stop a casa per la pipì, siamo andati a ritirare un pacco in posta e a fare la spesa. Alle 18.45 eravamo a casa. Messa a posto la spesa, ho dovuto convincere Lolò a fare la doccia. Siamo ancora nella fase in cui ha paura del doccino, e sono sicura che sto predisponendo il terreno per un trauma che mi rinfaccerà in fase adolescenziale. Lo sto strappando al suo bagnetto, alle sue paperelle, alla sua mezzora di giochi d’acqua. Ma. Stasera dobbiamo cenare presto. Alle 19.15 la cena era in tavola. Alle 20.30 la tavola era sparecchiata, il mio compagno era già in direzione lavoro, e io ho pensato di sedermi un attimo. Smartphone alla mano ho letto la timeline di Facebook, ho commentato qualcosa, ho scritto un post veloce. Riemergo ed erano già le 22.
E Lolò? Guardava cartoni animati sul divano.
Ero mancata tutto il giorno, e poi lo avevo abbandonato sul divano. Da solo.
Ero accanto a lui, ma completamente immersa in un altro mondo.
Da quando blogger è sinonimo di lavoro, avere un blog per me è diventata una croce e una delizia.
Da un lato non riesco a smettere di scrivere. Scrivo per lavoro, scrivo per Note Modenesi, vorrei scrivere un romanzo, perché non dovrei scrivere per il mio blog?
Dall’altra penso alle blogger di professione. A quelle che aggiornano spesso, hanno sempre l’argomento giusto, sono sempre sul fatto di cronaca, sempre presenti sui social. A qualsiasi ora mi connetta, loro hanno già letto e commentato la qualunque. Condividono, interagiscono, scrivono, fotografano, fanno post produzione alle foto, spesso realizzano video, e sono informate su ogni cosa.
Ecco: io vorrei capire come fanno. Soprattutto vorrei capire cosa fanno i loro bambini. Perché è vero: essere blogger, fare la blogger, avere successo con un blog, è un lavoro.
Ci si dedica tanto tempo. Scrivere un post mediamente accettabile richiede tempo. Trovare la foto giusta richiede tempo. Partecipare ad eventi richiede tempo. Condividere e commentare richiede tempo.
C’è stato un periodo in cui avrei potuto fare il salto e decidere di investire in questa professione. Il primo lavoro da blogger, retribuito, l’ho accettato nel 2009. Avevo imboccato la strada giusta per trasformare una passione in un lavoro. Poi la consapevolezza di avercelo già un lavoro, di cui non parlo mai, che mi piace. Ho rinunciato ad offerte di blog tour, ho rinunciato a presenziare, ho rinunciato ad esporre qualsiasi aspetto della mia vita sui social. Con l’arrivo di Lolò ho deciso, definitivamente, che fare la blogger doveva rimanere un hobby.
E vi assicuro, è un hobby bellissimo, ma molto impegnativo.
Io non voglio che il mio blog diventi un lavoro e non solo perchè mi porterebbe via tempo, ma perchè mi sembrerebbe di tradire il blog stesso e il motivo per cui è nato.
Poi eh, che sia letto mi fa piacere eccome,ma finisce lì!
NonPuòEssereVero la pensiamo esattamente nello stesso modo. Però, tempo alla mano, preferisco alimentare il mio blog, piuttosto che curare una pagina, su un’altra piattaforma, che per farmi leggere, chiede dei soldi. Tutto qui.
Questo si Marlene,hai ragione.
Io non ho mai sposorizzato nulla su Fb, per ora mi da abbastanza visibilità. Quando non me la darà più lo saluterò
Il mio blog è parte integrante del mio lavoro ed è davvero ardua, a volte. Malgrado io sia una freelance (o proprio perché lo sono).
Non mollare mai.
Giovy lo fai per mestiere e sai quanto tempo ci vuole e come è difficile stare al passo. Il mio è un hobby a cui non vorrei rinunciare. Mi prendo solo del tempo per decidere. O almeno per cambiare strategia.