Quando con lo sguardo luccicante mi chiedi – Giochiamo a BU-U? – sembra ieri che ti abbiamo portato a casa, con la testa in confusione e senza la minima idea di cosa fare con te.
Ce lo stai insegnando giorno dopo giorno. Nel frattempo ho smesso di farmi mille domande. Ho smesso di fare una cosa e chiedermi se l’ho fatta bene. Ho smesso di credere che quello che fanno le altre mamme sia migliore.
A distanza di tre anni da quella corsa in ospedale ho meno sensi di colpa. Non ho giorni bui. Leggo meno ma ti osservo di più. Soprattutto mi comporto con te come vorrei.
Ho letto da qualche parte che avere un figlio significa permettere al proprio cuore di uscire fuori da noi e camminare da solo nel mondo. È la mia sfida quotidiana lasciare che faccia le tue esperienze, lasciare che scopri i tuoi gusti, lasciare che in autonomia faccia le tue scelte. Il mio compito è darti la mano quando serve, lasciarla quando non è necessaria, essere pronta a tenderla se ne senti la necessità.
Hai solo tre anni, e vorrei sempre stringerti e coccolarti. Per questo a volte ti chiedo – Vuoi fare il bambino piccolo? – E ti tengo in braccio nella posizione classica dell’allattamento. A volte me lo chiedi tu. È il nostro gioco. A volte mi dici di no. E allora capisco che hai già tre anni. È giusto che tu scenda dalle mie braccia e parta all’esplorazione del mondo.
Al tuo primo compleanno mi sono dedicata gli auguri. In fondo era il mio primo compleanno da mamma.
Al tuo secondo compleanno ho scoperto di avere qualcosa di magico dentro di me.
Per questo terzo compleanno sento di essere diventata davvero mamma.
Porta pazienza, sono sempre in ritardo. Anche sull’amore.