This must be the place

Wordpress mi ricorda che questo post avrei dovuto pubblicarlo almeno un anno fa. Ora che Paolo Sorrentino è candidato all’Oscar come miglior film straniero con il suo ultimo film La grande bellezza, sembra che lo faccia solo perché tutti ne parlano. Ma in fondo non voglio parlare del suo ultimo film, ma del suo penultimo, perché i film, le storie raccontate nei film, non sempre devono piacere solo perché hanno vinto un premio, o perché piacciono al critico influente di turno. I film, le storie raccontate nei film, per rimanere devono toccare le nostre corde più profonde, i nostri sentimenti, spesso quelli nascosti. E per me questo è uno di quelli.

Avevo iniziato il mio post così:

Mi decido a scrivere di This must be the place dopo svariate visioni, supportate dall’acquisto del dvd, e con nelle cuffie la colonna sonora del film. La prima volta non l’ho capito.
Colpa mia: ormai guardo i film twittando, e twitto con la televisione in sottofondo. Ma non é così che va guardato. Eppure, nonostante la distrazione, qualcosa era rimasto come in sospeso, e alla seconda ho capito cos’era.

Eccolo Cheyenne, uno Sean Penn truccato e cotonato da rockstar, ma che ormai non suona più e vive, ricco e di rendita, senza però riuscire né ad uscire dal personaggio che aveva creato, né ad essere felice. All’apice della sua carriera due ragazzi si sono suicidati ispirati dalle sue canzoni. Il senso di colpa non lo abbandona mai, e se lo trascina dietro lungo tutta la narrazione, materializzato in un trolley di cui non conosceremo mai il contenuto, e da cui il protagonista non si separa mai.
Sotto il trucco della rockstar che ha [avuto] tutto, si nasconde un disagio profondo, che nessuno comprende. La maschera vince sempre, ed è la maschera che seguiamo verso la sua dissoluzione e la nascita di un uomo.

Il viaggio di Cheyenne attraverso un’America in cui tutto è enorme e immenso e luminoso e colorato, ha inizio alla morte del padre, ebreo, che sopravvissuto alla deportazione, ha speso tutta la sua vita per ricercare il suo carceriere.
Ma non è questa la parte della storia che mi interessa raccontare.
Il viaggio è il pretesto per lasciare la sicurezza della sua casa, la “vecchia” e “rassicurante” Europa, per una America e un “se stesso” sconosciuti. Disseminati lungo il cammino, come le molliche di Pollicino, personaggi, intuizioni e frasi folgoranti, quelle cose che alcuni di noi pensano, ma che non dicono perché “non sta bene”, e che spesso stravolgono il pensare comune.

Come l’incontro con l’uomo tatuato. Quando gli dice che ormai nessuno lavora e sono tutti artisti.

Quando spiega al giovane che il segreto delle cose sta nel tempo.

E ci dice ancora qualcosa sul tempo che passa quando incontra Rachel e le suggerisce che si passa troppo velocemente dall’età in cui si dice – farò così – all’età in cui si dice – è andata così – perdendo occasioni e rimanendo bloccati in situazioni che non ci si addicono.

E quella che forse è la mia frase preferita, che vorrei usare spesso, per tutte le volte che mi è stata detta la solita frase di conforto: – Non è vero! Ma è bello che tu me lo dica – perché a volte basta anche solo una parola detta al momento giusto a rendere un momento indimenticabile.

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Alla fine del viaggio quello che resta non è la rockstar ma l’uomo. E abbandonata la maschera, abbadonato il suo trolley pesante e ingombrante, riesce ad essere finalmente se stesso.

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