Blood Story è la dimostrazione di come dato un tema, lo svolgimento possa essere molto diverso.
Il tema in comune è il romanzo di John Ajvide Lindqvis che racconta dell’amore infantile fra una vampira dodicenne (ma Lestat de Lioncourt non vi aveva detto che così giovani non devono essere fatte?) e un dodicenne solitario, molestato dai bulli a scuola, ignorato dai genitori che stanno divorziando. Due solitudini che si incontrano.
Diversa la resa sul grande schermo. Certo, non dovrei fare paragoni, ma è arrivato prima Lasciami entrare (Let the Right One In) e poi Blood Story (Let me in). E anche se il remake americano è un buon prodotto, lasciatemi dire che la neve che ricopre il paesaggio e che nel film originale rende un’atmosfera romantica e ovattata, in questo rifacimento appare una banale scelta stilistica. I pochi dialoghi, e i lunghi silenzi, che lasciavano la porta aperta ai sentimenti, qui si trasformano in noia mortale. Quello che nella pellicola originale veniva solo immaginato, qui è reso in maniera esplicita, per conformarlo ai gusti del pubblico americano. Tutto quello che nella pellicola di Tomas Alfredson era etereo, distante, algido, per la regia di Matt Reeves è sanguigno, pericoloso, evidente.
Finiti i paragoni, ammetto che avrei preferito vederlo senza conoscere l’originale, perché alla fine questa versione è molto bella. È un horror con le carte in regola, con i vampiri che fanno il loro mestiere, uccidendo a sangue freddo, vivendo di notte, prendendo fuoco alla luce del sole e trasformando i malcapitati che vengono morsi in vampiri succhiasangue, cattivi e senza coscienza. E anche se non credo che sia il miglior horror degli ultimi 20 anni (come ha commentato Stephen King) lo consiglio a chi piacciono storie un po’ dark, alla Carrie.
In fondo parlano entrambi della difficoltà di crescere e di essere accettati, in salsa horror.