Da sempre mi sono sentita dire:
– Ma come parli? – o semplicemente che parlo strano. Spesso mi hanno anche preso per i fondelli per come parlo, per i termini che utilizzo, per i tempi dei verbi che non sbaglio. Come se parlare correttamente fosse un difetto.
Il mio problema è sempre quello: nascere in un posto e crescere in un altro. Cambiare continuamente crea una contaminazione che se a farla è uno straniero sembra quasi un vanto (dipende lo straniero da dove arriva, ma in linea di massima ci fa sorridere e ci rende fieri). La contaminazione dialettale fatta da un italiano, che saltella da un dialetto all’altro, crea invece una reazione diversa.
O almeno è la sensazione che ho percepito nei miei anni di nomadismo tutto italiano.
Sono nata nel profondo nord-est. Ho traslocato al sud: a 10 anni i bambini sanno essere molto cattivi. Ve la immaginate la mia parlata cantilenante tipica-veneta in prima media? All’inizio ha generato ilarità, successivamente scherno, alla fine mi ha trasformata in una bambina schiva, riservata e timida, poco propensa a conoscere nuove persone, e soprattutto molto silenziosa.
Facevo tappezzeria ovunque. Ho ascoltato tanto. E ho imparato.
Ho imparato ad evitare di far dondolare le finali delle parole sulla lingua.
Ho imparato a sputarle fuori senza fletterle su se stesse.
Ma non ho mai imparato il dialetto del paese che mi ospitava.
Mio padre afferma che se non ho imparato, è perché non ho voluto.
Quel dialetto del sud, tanto diverso da quello ascoltato durante la mia infanzia, lo capisco, a volte ne uso le espressioni più simpatiche per dare colore al mio discorso. Mai l’ho parlato correntemente.
Poi sono arrivate le scuole superiori. Via dal paesello, in una nuova città. Il mimetismo linguistico era perfetto, nessuno si accorgeva che non ero figlia del sud. Ma continuavo a parlare solo italiano. Con tutti, sempre.
Durante l’ultimo anno di scuole superiori, quando chiacchierando è sbucato da dove provenivo, un mio compagno di classe esclamò:
– Ah! Ora capisco perché sei così… –
Non ebbi il coraggio di indagare. Vivo ancora nel dubbio di che cosa sembravo ai suoi occhi.
Poi l’Università: ancora sud, una nuova città, una nuova vita, premessa di un splendido futuro. Nuova battuta d’arresto. Nel dialetto del posto una collega di Università mi rimproverò: – Ma come cazzo parli! Parla come mangi e atteggiati poco.-
Perché il mio italiano era perfetto per chiedere le cose alzando la mano in aula, ottimo per superare un esame, ma quando la sera si usciva era causa di imbarazzo per le persone che frequentavo.
Dopo la laurea, ancora un trasloco. Stavolta al nord. Decisamente meno nord della mia infanzia. Io continuo a parlare italiano, la flessione ormai è quella che è, dopo tanti rimaneggiamenti.
Adesso se parlo con uno del posto sente che sono meridionale, con conseguente atteggiamento di chiusura.
Se parlo con uno del sud, crede che sia una del posto, con conseguente atteggiamento di chiusura.
Ma quel che è peggio, quando parlo con parenti e amici mi prendono in giro per quella vena di dialetto nordico che ogni tanto sbuca nelle mie espressioni.
Così mi rifugio nella scrittura. Scrivere mi permette di poter raccontare quello che voglio, senza preoccuparmi di essere giudicata da come parlo.
A me la parlata veneta non andrà mai via.Tutte le volte che dico “Vivo in Emilia ma sono veneta” mi sento rispondere “si sente”. Nel mio paese di origine si parla in dialetto anche dal dottore o se vai in un ufficio pubblico. Quando torno lì ogni tanto, capita che mi “sbagli” e parli italiano e i miei amici mi fanno “stai bene Giovy”?
Giovy vedi che parlare italiano causa solo problemi? 😀
A parte gli scherzi: un veneto in Campania è la pecora nera del gregge. La individui da lontano e la prendi per il culo. Ero in piena adolescenza, non sentirmi accettata ha tirato fuori il peggio di me.